|  E' 
              molto difficile per me scrivere di mio padre. L'amore e la lunga 
              consuetudine confondono: rimangono cose che la memoria sente come 
              fondamentali; non ne vengono in mente altre, magari le più 
              importanti, alle quali l'assuefazione ha tolto significato. Inoltre, 
              di un lavoro che è durato ininterrottamente dalla prima guerra 
              mondiale agli ultimi anni settanta, tendo a ricordare meglio gli 
              ultimi decenni: non solo perché più vicini, ma anche 
              perché una maggior libertà dalla famiglia mi ha consentito 
              di riannodare con mio padre rapporti più stretti e prolungati.
 Così 
                da qui e da ora, com'è il suo verso naturale, si avvia 
                e si forma il ricordo, strettamente legato a Barga dove si era 
                ritirato gli ultimi trenta anni della sua vita. Questo paese è 
                sempre stato un punto di riferimento del suo pensiero; incanalava 
                il suo lavoro, gli dava misura e ritmo; era un punto di vista 
                fermo, familiare, comprensibile. Questo paese: e nel paese, questa 
                casa dove ora si tiene la mostra. Qui aveva dapprima solo le stanze 
                dello studio, finché non poté averla, restaurarla, 
                farne il luogo di raccolta dei suoi quadri.   Lo 
                dice bene Ernesto De Martino, che "alla base della vita culturale 
                del nostro tempo sta l'esigenza di ricordare una patria - per 
                non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente 
                nella memoria, a cui l'immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, 
                e che l'opera di scienza e di poesia riplasma in voce universale". 
                Continuamente tornava alla memoria di mio padre quella Barga piccola 
                e chiusa della sua infanzia, grigia di pietra, con infissi alle 
                mura dei suoi nobili palazzi gli anelli di ferro per attaccare 
                i muli; una vita quotidiana dal ritmo lento, un po' superbo e 
                malinconico, che è la musica di tanti suoi quadri.
  Così 
                la sua vita tendeva all'immobilità, al radicarsi sempre 
                più profondamente, al guardare sempre più da vicino, 
                sempre più nei particolari; vorrei esser nato platano, 
                diceva; star fermo, allargarmi sempre più nelle radici. 
                Diceva che non occorre cercare una veduta storica o panoramica 
                per trovare il bello: basta sradicare un cespuglietto d'erba, 
                rovesciarlo, studiare il movimento delle radici, il loro rapporto 
                con la terra, con i piccoli sassi che esse abbrancano. Gli piaceva 
                molto quell'aneddoto attribuito a Gonciarov, quando fu chiamato 
                sul ponte dal capitano della nave, cui sembrava che lo spettacolo 
                grandioso della tempesta fosse particolarmente adatto a un artista; 
                Gonciarov guardò in giro corrucciato, brontolò: 
                un gran disordine! e se ne tornò in cabina. Sempre infastidiva 
                mio padre lo sforzo visibile nel lavoro, il gonfiarsi, l'ansimare 
                verso il risultato; sentiva che la forza è dentro, e da 
                dentro indica quel minimo che occorre per arrivare, quello scarto 
                delicato, quel rapporto che fa sì che il quadro sia "a 
                posto".
  Si 
                sviluppava così nel suo lavoro quella che lui interpretava 
                come una tendenza alla semplificazione. Non lo interessavano più 
                i suoi lavori del periodo pienamente figurativo degli anni venti 
                e trenta, dipinti in parte a Barga, in parte in Veneto, a Budapest, 
                a Parigi. Nemmeno lo interessava più il gruppo dei quadri 
                dipinti in Bulgaria, dove era stato nei primi anni quaranta, e 
                dove era stato attratto dai vividi colori dei villaggi turchi 
                e zingari, dalla bellezza solenne delle donne zingare. Ne era 
                nato il piacere - che appartiene solo a questo periodo - per un 
                colore e una pasta ricchi e pieni, luminosi, che si era allargato 
                anche a certi nudi e a certi paesaggi di questo stesso periodo 
                e luogo.
  Adesso, 
                tornato a Barga per lo scoppio della guerra, e deciso a non muoversi 
                più, avviava quel periodo di intenso raccoglimento che 
                doveva concludersi alla sua morte. La sua riflessione sulla pittura 
                prendeva una strada tutta diversa. Il figurativo spaziato, pieno 
                di prospettiva, illusionistico, cedeva via via il passo a un lavoro 
                i cui eventi si svolgevano tutti alla superficie del quadro, la 
                cui materia e soggetto era il colore stesso; che non richiedeva 
                più certo l'osservazione di modelli e paesaggi, ma un ripensamento 
                profondo di forme, di rapporti in equilibrio delicato e difficile.
  Diceva: 
                voglio avere qui tutto sulla superficie della tela. Ripensando 
                a grandi tratti allo sviluppo del suo lavoro, si riconosce che 
                le due guerre mondiali debbono aver costituito due cesure fondamentali 
                della sua vita. Della prima parlava con riserbo, con quel tono 
                basso che gli era caratteristico. Erano stati quattro anni di 
                trincea, e una medaglia al valore presa sul Piave; gli ultimi 
                due anni al comando di una formazione speciale di ex carcerati, 
                coi quali si era inteso benissimo. Parlava della pioggia, la cosa 
                più tremenda, diceva, della guerra in trincea: all'inizio 
                cercavi di ripararti in qualche modo, in quelle trincee quasi 
                scoperte, con teli impermeabili o altro; e cominciavi a sentire 
                l'acqua che ti si infilava nel colletto; quando eri fradicio, 
                e ormai ogni precauzione era inutile, era quasi una liberazione, 
                non ci pensavi più. Ma anche i topi erano una piaga, e 
                bisognava mettere di guardia l'attendente con un bastone, per 
                poter vincere il ribrezzo e poter dormire. Per il resto, qualche 
                rapida descrizione: il soldato colpito al cervello, che attacca 
                a gran voce l'avvio di un ritornello - Affacciati alla finestra... 
                - prima di cadere fulminato; o il colonnello venuto in visita 
                alle trincee che dopo aver camminato a lungo chino per ripararsi, 
                si alza con una mossa naturale per massaggiarsi la schiena indolenzita 
                e viene preso alla testa; o le lunghe conversazioni con gli austriaci 
                durante le ore di pausa. Una cosa sola ricordata con una smorfia 
                di sofferenza: le licenze, la gente che in treno si scostava per 
                paura dei pidocchi, la gente che faceva la solita vita fin dalle 
                retrovie, e più ancora verso l'interno.
  Due 
                anni, verso il trenta, passati a Gorizia, furono l'occasione di 
                un riconoscimento minuto del Carso, del San Michele; si ripercorrevano 
                i camminamenti e le trincee; si vedevano i ragazzi ancora alla 
                ricerca del ferro interrato. Ne nacquero molti disegni, e un pastello 
                dei migliori.
 Ma 
                nel decennio che seguì la guerra fu una vera esplosione 
                di lavoro. Nei grandi quadri domina come tema la figura umana, 
                una umanità assorta, colta in un momento di riposo dalla 
                fatica quotidiana. Pochi paesaggi, e soprattutto, cosa proprio 
                sua caratteristica, mai panoramici: qualche tratto di tetti, di 
                grondaie barghigiane, col gusto di sottolineare l'andamento geometrico 
                delle linee che convergono, divergono, cadono e si innalzano. 
                  Tutto 
                questo lavoro ha a parer mio un primo livello di lettura, quello 
                che tutti coglievano e colgono con emozione, cioè l'evidenza 
                rappresentativa e l'intenzione tematica. Ma approfondendo l'osservazione 
                si trovano, aldilà di questo, alcuni caratteri che permarranno 
                in seguito in lavori apparentemente diversissimi: non solo la 
                negazione totale della rapidità e dell'abbozzo, ma come 
                una forza di gravità per cui il quadro consiste in tutte 
                le sue parti, e ogni forma si esprime come se portasse a compimento 
                per suo conto tutto un processo di pensiero: un rapporto di colore 
                tra la parete e le spalle della persona che vi si appoggia, il 
                verso di una mano d'uomo sul tavolino di un'osteria, un profilo 
                che si perde nel sonno, vi si cancella e quasi si annulla, una 
                donna distesa in una calma composizione orizzontale: e cogliamo 
                la lucentezza della pelle tesa sulle ginocchia abbandonate, il 
                braccio che si allunga in primo piano quasi a commentare la linea 
                della bella persona.
  Questo 
                senso profondo della composizione, la comprensione della autonoma 
                importanza di ogni minimo fenomeno è una delle direttrici 
                del quadro; e fa contrasto con l'intenzione compositiva più 
                evidente, che si accompagna al tema e lo sottolinea. Questa interna 
                divaricazione dà ai quadri un loro peso peculiare, un modo 
                calmo e riposato di occupare lo spazio. A proposito di questo 
                equilibrio mi viene alla mente una frase di Kandinskij: "naturalmente 
                ogni opera d'arte è quieta, solo che ai contemporanei riesce 
                difficile trovare quest'intima quiete (nobiltà). Ogni opera 
                seria risuona interiormente con le parole, tranquillamente e nobilmente 
                proferite: sono qui ".
  Con 
                Kandinskij però mio padre polemizzò una intera estate, 
                leggendo Lo spirituale nell'arte. Già il titolo non gli 
                piaceva, con quel termine spirituale che lo metteva in sospetto. 
                Mentre condivideva tutte le parti tecniche, di mestiere, gli sembrava 
                pericolosa l'impostazione del pensiero. Ad esempio, là 
                dove Kandinskij parla del rischio, per un pittore, di privarsi 
                della possibilità di determinare una vibrazione interiore 
                con un oggetto plasticamente rappresentato, mio padre contestava 
                che questo rischio esistesse: noi viviamo in mezzo a queste forme, 
                di queste forme e fatta la nostra capacità di vedere, cosa 
                possiamo rappresentare se non questo? La vibrazione in chi guarda 
                proviene appunto dal riconoscimento della sua propria esperienza 
                visiva.
  Era 
                sua caratteristica ritrarsi da ogni affermazione che presumesse 
                una qualche sicura conoscenza. Per questo più che i critici 
                gli piaceva leggere i narratori e i poeti. Aveva un modo particolare 
                di leggere, un dialogo continuo con lo scrittore; ad esempio non 
                diceva "guarda com'è bello qui'", ma "guarda 
                come ha fatto bene"; lo emozionava ogni soluzione tecnica 
                riuscita, leggeva assaporando i problemi e le soluzioni. Gli piacevano 
                molto i narratori del novecento, Joyce, Musil, ma lo disturbava 
                doverli leggere tradotti; perciò passava più tempo 
                coi francesi, che poteva leggere in lingua - Flaubert, Maupassant, 
                Proust, ma soprattutto Flaubert - e con gli italiani. Fra gli 
                italiani, I'opera che ha letto forse più a lungo è 
                l'Orlando Furioso; l'ultima rilettura fu lentissima, gli durò 
                per mesi e mesi. Leggeva alla sera, quando la luce per lavorare 
                era tramontata. Passava dalle sue stanze di studio a quelle di 
                abitazione, si lavava a lungo le mani sporche di colore e odorose 
                di acqua ragia, prendeva un tè, e si sedeva soddisfatto 
                dicendo: io ho lavorato, ora vediamo come ha lavorato lui. Seguiva 
                con particolare gioia il filone di Astolfo, ed era contento quando 
                il personaggio rientrava nel racconto. L'unica sua pittura che 
                nasce direttamente da un libro è proprio un piccolo quadro 
                affollato e pieno di movimento, Astolfo che fugge a cavallo con 
                in grembo la testa di Orrilo, mentre Orrilo decapitato lo segue 
                a ridosso minacciando con le mani alzate.
  Il 
                modo di pensare in cui si radica questa visione dell'arte, della 
                lettura, della cultura insomma è rilevante per capire il 
                suo lavoro e la sua stessa concezione di vita. Secondo questo 
                modo, ogni opera è un evento staccato e unico in sé; 
                non si vedeva in lui traccia di un piano generale di accumulazione, 
                per cui un quadro, un libro, una musica dovessero servire anche 
                da tramite, o anche solo dovessero avere una funzione altra da 
                sé: anzi, si doveva fare spazio intorno all'opera, isolarla 
                in modo che potesse assumere tutto il rilievo che le competeva; 
                nessun altro uso era previsto o consentito. Tutto ciò aveva 
                lo scopo di portare l'attenzione al modo di lavorare, al come 
                dell'esecuzione. Ne risulta un modo di avvicinarsi all'opera d'arte 
                che io chiamerei egualitario, senza rispetto per le graduatorie 
                e senza fiducia nell'autorità, in cui le uniche regole 
                sono la lentezza, la cura, l'attenzione.
  Così, 
                sia per il lavoro proprio che per capire il lavoro degli altri, 
                la ricerca di mio padre era fortemente caratterizzata; non cercava 
                il bello, ma il serio, il ben fatto, la traccia e lo spessore 
                della fatica quotidiana, dell'esperienza, della sapienza artigianale: 
                di ciò che chiamava, riferendosi al proprio lavoro, tribolare. 
                Su questo quotidiano tribolare, e solo su questo, poteva innestarsi, 
                come un miracolo, il bello, l'arte; ciò che non viene fatto, 
                ma viene da sé - e tutta la bravura del cosiddetto artista 
                consiste nel vedere che è venuto, e non guastarlo. Fu molto 
                contento, infatti, quando lesse una risposta che l'amato Manzù 
                aveva dato a Liliana Madeo in una intervista sulla Stampa: "Nello 
                studio ogni mattina ci vado per un mio bisogno, come bisogno e 
                mangiare e dormire. Non ci vado mai con l'idea di fare l'opera 
                d'arte. Se una volta pensassi questo non lavorerei mai più. 
                Ogni giorno spero che sia la volta buona". Questa risposta 
                esprimeva appunto la libertà di movimento che si ottiene 
                depurandosi - o ripulendosi, come diceva volentieri, indicando 
                così il processo di semplificazione - da rigidezze mentali 
                e ambizioni sbagliate; una libertà che permette di avvicinarsi 
                in modo sempre nuovo e aperto al lavoro sia proprio che altrui.
  E 
                a ogni tipo di lavoro, non solo a quello dell'arte. Anche come 
                insegnante rifiutava termini (e intenzioni) come educare, formare, 
                ecc. Pensava che noi possiamo insegnare a lavorare, non mai a 
                disegnare, a scrivere, a capire l'arte: questo, se viene, viene, 
                come il bello, per soprappiù.
 La 
                seconda guerra mondiale lo segnò in modo ben più 
                profondo della prima. Non era più giovane e non era più 
                responsabile solo di sé. I quadri rischiarono di andar 
                perduti sotto i bombardamenti, e un autoritratto del periodo bulgaro 
                ha ancora sulla fronte il segno di una grossa scheggia. La preoccupazione 
                di sopravvivere era particolarmente angosciosa per la vecchia 
                madre, che non riusciva a rendersi conto della situazione. Mi 
                ricordo ancora il mio terrore mentre, dalla cantina dove mi ero 
                calata per la botola, osservavo mio padre che vi arrivava passando 
                per la strada lunga, tra le cannonate che fioccavano, conducendo 
                lentamente a braccio la nonna, la quale seguitava a spiegargli 
                che "male non fare e paura non avere".  La 
                desolazione delle rovine e anche di certi aspetti della ricostruzione, 
                accentuava il suo bisogno di fortificarsi nel suo paese e nella 
                sua casa, di fissare il suo punto di vista sul moto violento che 
                lo circondava. Questo non significava però chiusura verso 
                l'esterno. Al contrario la radicazione, la sicurezza del punto 
                di vista gli permettevano quella estrema libertà, quella 
                totale disponibilità che ho cercato di descrivere. Anche 
                la sua solitudine, completa e dichiarata, aveva dall'altra parte 
                bisogno non solo dei pochi intensissimi affetti, ma anche della 
                presenza, intorno, di voci e figure note. La sua passeggiata giornaliera 
                era punteggiata di incontri, di brevi scambi di frasi, di cenni 
                di saluto, che costituivano un accompagnamento appena percettibile 
                ma necessario alla sua solitudine. Lo infastidiva invece in modo 
                intollerabile qualsiasi interferenza nel suo disciplinatissimo 
                orario di lavoro e di riposo, qualsiasi cosa che dal lavoro lo 
                distraesse e gli creasse quelle che chiamava "tensioni inutili". 
                Non ebbe più voglia di far mostre né di permettere 
                che fossero fatte da altri; questo avrebbe appunto costituito 
                un disturbo al quotidiano tribolare. Al pomeriggio, quando usciva 
                dallo studio, per passare nelle stanze di abitazione, se nessuno 
                doveva venire, chiudeva il portone di casa. La vastità 
                e il numero delle stanze gli allontanavano i rumori del paese 
                e nello stesso tempo gli permettevano di sentirli con agio e partecipazione. 
                A volte nella grande casa si sentiva un tonfo attutito che sembrava 
                lì e veniva invece da lontano, da uno dei palazzi della 
                via, tutti legati nelle loro strutture; o si sentivano passi, 
                o canti dalla strada, o motori della via di circonvallazione. 
                Se era estate e le finestre erano aperte, giungeva a volte chiarissimo 
                un dialogo a bassa voce, rimandato dal gioco dell'eco prodotta 
                dalla forma articolata delle grandi strutture. Mio padre passeggiava 
                per le sue stanze, nella poca luce del crepuscolo, accendendo 
                solo quando non ne poteva fare a meno. Si riposava gli occhi, 
                si distendeva camminando col suo passo sicuro, fortemente ritmato, 
                a testa china. Non usava altre stanze della casa, voleva che nelle 
                sue camere non ci fossero mobili inutili a intralciargli la passeggiata. 
                Così camminava, mugolando un motivo sempre ripetuto.  La 
                sua ricerca pittorica in quest'ultimo terzo della sua vita tira 
                le fila di tutto il pensiero precedente. Mio padre intendeva questo 
                processo come ricerca di massima semplificazione, necessità 
                di lavorare en souplesse perché dalla esperienza di tanti 
                anni scaturisse il dipinto che non chiamava mai bello, ma solo 
                a posto. Raramente era soddisfatto; la massima approvazione era 
                "può andare", oppure "ne fanno anche di 
                peggio", ma spesso decine di quadri venivano accuratamente 
                messi da parte - non distrutti, perché la tela costa cara 
                - per essere grattati con la carta vetrata. Per qualche giorno 
                allora si poteva vedere, in due stanze contigue dello studio, 
                due uomini in cappa grigia di cotone davanti a due cavalletti: 
                uno era mio padre che dipingeva, l'altro il suo giovane amico 
                Paolo che cancellava.  Vi 
                sono in questo periodo un certo numero di quadri fatti solo di 
                forme, non riferibili a nessun soggetto. Ma nella maggior parte 
                di loro compare ancora, in qualche modo, la figura umana. Non 
                sono più figure che occupano una prospettiva e la dominano; 
                sono invece figure schiacciate dal materiale stesso da cui emergono, 
                pietre, schegge, pietrisco; spesso c'è la bocca di una 
                caverna da cui sembrano uscire a fatica. Questo materiale pesante 
                a volte si alleggerisce, si fa quasi trasparente o assume colori 
                di pastello. La figura umana non è mai più importante 
                di ciò che la circonda. Un ometto appoggiato forma col 
                movimento del collo, con l'apertura chiara della camicia, con 
                le braccia, con le gambe, dei tratti di colore verticale un po' 
                in tralice, che continuano con la stessa forza e carattere accanto 
                a lui, costituendo la massa cui si appoggia. La donna col secchio 
                amaranto si va alleggerendo dal basso verso l'alto, finché 
                la sua testa quasi sparisce dentro il materiale che si fa sempre 
                più trasparente. Una grande figura sdraiata reca al centro 
                una macchia blu, da cui sembra generata; e costruisce attorno 
                a sé, con la irradiazione minerale di un cristallo, una 
                materia originata dallo stesso colore.  Questo 
                persistere della figura era per mio padre un tormento. Diceva 
                che si sentiva legato, impedito; condizionato nonostante tutto 
                dalla necessità che i movimenti fossero accettabili e comprensibili. 
                Ma questa figura umana gli tornava sempre tra le mani, e bisognava 
                tribolare perché non accampasse nel quadro diritti che 
                non aveva, e tutte le necessità fossero soddisfatte. Rispetto 
                alla contrazione e alla tensione dell'età matura, la sua 
                vecchiaia è stata sedata, spesso serena. Non mai rassegnata, 
                però; non ha mai visto nella vecchiaia niente di bello; 
                è rimasto sempre dolorosamente stupito nel vedere riflesso 
                nella vetrina un vecchio che era lui, o di vedere spogliandosi 
                delle gambe di vecchio che erano le sue. Non era d'accordo col 
                venditore di almanacchi, non avrebbe avuto dubbi: riavere venti 
                anni subito, a qualsiasi patto.  Non 
                vi era tuttavia in lui niente di vitalistico; era malinconico, 
                e spesso si annoiava. Ma aveva un gran rispetto per questa snocciolata 
                di giorni che è la vita; un rispetto con alcuni tratti 
                di parsimoniosità per questa unica cosa che abbiamo, per 
                mantenerne la forza, la capacità. Gli piaceva Rabelais, 
                e apprezzò gli studi del Bachtin, soprattutto per la ricostruzione 
                della filosofia rabelesiana. Leggendo si era fermato su questi 
                brani: "La morte qui non spezza la serie ininterrotta della 
                vita umana... è fatta della stessa pasta di cui è 
                fatta la vita"; "... doveva valutare in modo nuovo anche 
                la morte, mostrarla cioè nella serie temporale generale 
                della vita che continua ad avanzare e non inciampa nella morte, 
                sprofondando negli abissi ultraterreni, ma resta tutta qui, in 
                questo tempo e in questo spazio, sotto il nostro sole". Back 
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