I ricordi, si sa, albergano in una parte del cervello che si arricchisce di incertezze col passare del tempo. Essi, se si conservano, sono distorti da quel cambio dimensionale che caratterizza la nostra vita, con il passaggio dall’infanzia alle varie fasi che precedono la senilità. Accade così che certe cose proprio non le ricordiamo, mentre altre a distanza di anni lasciano ricordi vividi, quelli che ci fanno dire “mi sembra di viverlo in questo momento”. Quel “mi sembra” esprime un dubbio più che lecito perché, se ci pensiamo bene, siamo più sicuri del ricordo che della realtà.
Non voglio né posso avventurarmi in un campo che richiede ben altre competenze, ma questa sorta di premessa mi serve per introdurre l’armadio di mia nonna. Per la precisione, si tratta della mia nonna paterna, al secolo Marianna Barbi che io ho conosciuto pochi giorni dopo la mia nascita in quel “del” Sillico, sulle pendici dell’Appennino garfagnino. Del nostro primo incontro non ho, né posso avere, ricordi ma tra quelli che mi rimangono ce ne è uno legato ad un gigantesco armadio. Si trovava al termine delle scale che salivano al piano superiore di casa sua, dove c’era la camera.
Grande, smisurato, quasi più grande della stanza che lo ospitava. E’ così che aleggia nei miei ricordi di bambino. Forse ero io piccolo, più che lui grande. Anche gli scalini che portavano in camera nei miei ricordi erano altissimi. Quella scala per me era quasi un’arrampicata. Me la ricordo buia. Al termine una camera bassa con due letti, uno matrimoniale, l’altro singolo. Due finestre a dare luce, quella luce contro cui si stagliava gigantesco l’armadio. Il suo interno sembrava essere ancora più grande. Forse, come nelle Cronache di Narnia, nascondeva il passaggio ad un’altra dimensione. Nessuno, però, lo ha mai capito, temo.
Cosa poteva esserci dentro un armadio così grande? Spero che mia nonna non si offenda, ma io ricordo soprattutto stracci, abiti vecchi e da buttare, cose del tutto inutili ed imprevedibili per una casa degli anni 70. In un mondo che gettava via tutto, anche le cose di valore e, forse, i valori, in un mondo in cui la fòrmica sostituiva legno e pietre levigate, in cui la plastica produceva macchine da formula uno “allegate” a rotonde scatole di formaggini, quell’armadio custodiva cose vecchie, consumate, deteriorate. E suscitava sentimenti diversi. Ricordo mio padre e le mie zie che brontolavano mia nonna perché accumulava inutilmente di tutto in quell’armadio: vecchie camicie, sacchetti di plastica, asciugamani logori e rammendati e molto altro. Mia nonna replicava che un giorno sarebbero serviti. Sembra una semplice “questione generazionale”, ma io che all’epoca mi divertivo e a volte parteggiavo per mio padre e altre per mia nonna, oggi mi rendo conto che si trattava di due punti di vista frutto di epoche ed esperienze di vita ben diverse.
Uno era quello dei miei genitori e delle mie zie, persone nate nel nulla, nella povertà più assoluta, qualcuno poco prima o durante la guerra. Loro avevano vissuto ma forse non avevano capito il baratro sul quale erano venuti al mondo. Poi tutto era andato in meglio. Loro erano stati i figli della povertà ma stavano diventando o erano diventati i genitori del benessere. Buttare ciò che non serviva era (e per molti ancora oggi è) un’espressione del proprio benessere.
L’altro punto di vista era quello di mia nonna. Lei era nata povera e sapeva cosa volesse dire “alzarsi la mattina e non sapere cosa dare da mangiare ai figli all’ora di pranzo”. Io l’ascoltavo a bocca aperta quando raccontava certe storie. Per me erano favole. Storie come quella del primo giorno di matrimonio. Mio nonno quella mattina si alzò per andare a caccia e lei ci rimase male. La immagino per ore a chiedersi perché quell’uomo, ora quasi un estraneo, l’avesse sposata per poi andarsene “alla caccia” la mattina dopo il matrimonio. I suoi occhi si illuminavano, però, quando descriveva il ritorno di mio nonno che, all’improvviso, diventava il suo eroe. “Aveva preso cinque stordeche!” – mi diceva ancora in preda all’eccitazione di quel momento, pur a distanza di anni – “E io mi resi conto che grazie a lui c’era qualcosa di buono da mangiare quel giorno”. Già, lei aveva vissuto quei momenti e ora che c’era di tutto (non oso pensare cosa penserebbe dell’esubero dei nostri giorni) non poteva davvero pensare che cose ancora utili potessero essere buttate via. “Le metto da parte perché tornerà il giorno in cui non avremo niente e almeno quelle ci saranno”. “Oh Mamma… che volete che arrivi, la fine del mondo?”, di tanto in tanto le veniva risposto dandole rigorosamente del Voi.
Sono proprio queste ultime parole che mi sono balenate per la testa qualche giorno fa mentre mi affannavo nella soffitta della casa che condivido con i miei genitori. Io stavo cercando di decidere cosa fare con gli infiniti materiali che arricchiscono case e soffitte quando nasce un bambino. Se poi i figli sono due e non hai mai detto di no a chi ti ha proposto di prendere cose nuove comprate per i propri figli, spesso mai usate, capisci che sei in un mezzo guaio. Sono belle e utili, ma la loro utilità è limitata nel tempo. Così finiscono per ingombrare enormi volumi della casa. Così, mente cercavo di capire cosa avremmo potuto vendere, regalare o buttare, mi sono tornate in mente quelle parole.
Non credo che i Maya e l’interpretazione di qualche loro incisione o scrittura abbiano condizionato la mia scelta, però mi sono trovato a solidarizzare con mia nonna riflettendo sulla frase che tirava in ballo la fine del mondo. No, non avrei né venduto né buttato buttato quelle cose. Mi sono messo alla ricerca di uno spazio in quello che è un vero e proprio sottotetto, più che una soffitta, e alla fine tutto ha trovato una collocazione e la stanza inizialmente ingombra è risultata pressoché libera. E io mi sono sentito bene. E’ stato un po’ come incontrare mia nonna, ricevere una carezza e ricambiarla con un abbraccio. Tutto questo a pochi giorni dalla presunta “fine del mondo” che qualcuno si ostina a dire sarebbe stata predetta dai Maya, gente spazzata via da ben altra e più civilizzata “fine”.
Alcuni commenti da facebook, tra nonne, armadi e ricordi.
Mia cugina Francesca: “Cuscio, mi hai fatto commuovere, anche perchè quell’armadio, che ora è in casa mia, fu costruito dal mio nonno paterno che era falegname, in occasione del matrimonio dei nostri nonni. Adesso, ti farà piacere saperlo, è pieno di libri!!!”
La mia socia Serena: “Anche la mia nonna conservava tutto, da buona sarta anche un bottone poteva far comodo al momento giusto, se n’è andata da poco e mia mamma ed io abbiamo preso quell’eredità di non riuscire a disfarci di nulla e trasformare all’occorrenza una cosa in un altra…la cosa bella è che mettendo a posto le sue cose abbiamo anche ritrovato un pò di mio nonno che io non ho mai conosciuto”
Emanuela, amica di un’amica: “Anche l’armadio della mia nonna (materna) lo ricordo molto grande (mi sa che andavano così). Anche lei, come la nonna dell’articolo, conservava tutto, specie vecchi vestiti, anche perché sapeva cucire e, semmai, quei vestiti diventavano pezzi di stoffa da utilizzare per confezionare altri indumenti. Mi ricordo un’estate, dovevo avere 13-14 anni, mi fece l’intero guardaroba: avevo una rivista di cucito sulla quale vi erano un bel po’ di modelli, appena ne finiva uno io ne sceglievo un altro e lei lo realizzava. Non è più successo come quell’estate e per un po’ mi è dispiaciuto. Ma, soprattutto, l’armadio di mia nonna era tutto un lustrino e pailettes, le piacevano un sacco, non avrebbe saputo farne a meno e, del resto, andando di continuo a ballare… Non ha mai rinunciato a vivere mia nonna e, quando lo ha fatto, è morta poco dopo, ma aveva 94 anni e mezzo. Ultimamente è spesso nei miei pensieri…”