“S’impara più, e più si schiude i cuori a contemplar le cose naturali, che a intischiare in mezzo ai professori. Ci fanno scuola i piccoli animali, le stelle, il cielo, il mar, la terra, i fiori, e i nostri sensi deboli e mortali”.
Scriveva così, nella poesia “La mia scuola”, Geri di Gavinana, poeta e operaio che visse per molti anni a Fornaci di Barga dove fu costretto a “emigrare” per andare a lavorare presso la Società Metallurgica Italiana, dopo aver lavorato nelle officine Limestre. Morì il 22 settembre 1975. Quarant’anni fa.
Per l’occasione il dinamico Milvio Sainati (fautore di tante e tante iniziative sul nostro territorio) ha organizzato una giornata di ricordo della figura del poeta, assieme al Moto Club di Fornaci e con il patrocinio del comune di Barga, iniziata nel pomeriggio con l’inaugurazione della ristrutturazione della “Fontanina dell’Amore” (rovinata dal mal tempo del 2013), luogo molto caro al poeta che così ne scrisse: “Se quella fontanina poi parlasse quante cose avrebbe da narrare: direbbe cose grandi come il mare e ne direbbe tante molte grasse. Ma la fontana anche se trabocca – guarda, sorride e tiene l’acqua in bocca”.
Alla sera è stato presentato il volume “Poesie ritrovate” curato dallo scrittore e sceneggiatore (tra l’altro del celebre fumetto “Zagor”) Moreno Burattini, che spiega: “Ci sono stati, fino a pochi decenni fa, contadini o pastori che pur non avendo mai letto la “Divina Commedia” erano in grado di citarne a memoria interi canti e c’era un filone di poeti illetterati in grado di improvvisare sonetti o cantare in ottava rima. Sulla montagna pistoiese, la mia terra d’origine, così come in tante altre parti d’Italia, ci sono numerosi esempi di poeti “di paese”, quelli di cui, purtroppo, pare essersi perso lo stampo. Un nome fra i più famosi è di una donna, quello di Beatrice Bugelli, detta Beatrice di Pian degli Ontani, vissuta nell’Ottocento e, più recentemente, Geri di Gavinana che era in grado di scrivere versi di una immediatezza rara”.
Geri di Gavinana in realtà era nato come Giuseppe Geri anche se per tutta la vita si firmò e si fece conoscere con il cognome e il luogo di provenienza. Era un ragazzo del 1889, Geri. Studiò sino alla terza elementare, come sottolineava nella poesia con cui abbiamo aperto queste note.
Ma i pochi e brevi studi non gli impedirono di far versi in una maniera sorprendente. Iniziò a scrivere ben presto e le sue poesie maggiori furono raccolte nel volume “Fiori di Bosco”.
Un testo che si meritò l’elogio di Benedetto Croce e porta la prefazione del grande critico letterario Luigi Russo che scrisse: “La poesia del Geri è arguta e fresca. Senza pretese, poesia elementare del popolo, ma merita accoglienza dal lettore proprio per quel principio d’arte che la trasfigura. Se nel Geri non c’è elaborazione letteraria, c’è pure una capacità di elaborazione artistica. E se egli vi giunge non per curriculo di studi, questo non importa, vi giunge per assidua meditazione, e per affinamento interiore. Anzi, i poeti, per giungere all’arte, non conoscono altra via che questa”.
In questo quarantesimo della morte, proprio Milvio Sainati, dopo anni di irreperibilità del testo ha deciso di farlo ristampare in un’edizione del tutto simile all’originale.
Ci ha raccontato: “Per parlare del Geri non devo fare sforzi di memoria ma solo mettere in ordine i ricordi che affollano la mia testa. L’ho conosciuto, attraverso i suoi scritti, quando iniziai ad andare a scuola: alle elementari già ci facevano studiare alcune sue poesie che erano sulle antologie. Con gli anni, iniziai a frequentarlo e spesso facevo delle lunghe chiacchierate con lui. Puntualmente tirava fuori un foglietto, in carta riso, piegato in otto parti, battuto a macchina sul quale aveva scritto la sua ultima poesia e me la leggeva chiedendomi cosa ne pensavo”.
Geri fermava spesso anche Gian Gabriele Benedetti “all’angolo della strada che conduce alla stazione ferroviaria di Fornaci” per leggergli e chiedergli parere sui suoi ultimi componimenti. “Mi leggeva i suoi nuovi versi- ricorda con commozione Benedetti- che ancora mi cantano nell’animo e porto con me quale dono prezioso, come porto con me il ricordo più caro di quell’uomo buono e delicato, similmente alla sua poesia. Poesia arguta, fresca, ricca di immagini e ricordi, di gioie e di dolori. Poesia che tocca per davvero le corde della sensibilità, penetra dentro. Poesia come uscita dall’anima del popolo. Poesia frutto di una creatività che sapeva trasformare ogni cosa che il poeta toccava o vedeva o avvertiva o sentiva in momento lirico”.
In “Fiori di bosco” sono raccolte le poesie della sua prima produzione, c’è anche un un inno a Mussolini (“vera fede e vera luce”) e una intitolata “In pieno bolscevismo” (il testo, giova ricordarlo, fu stampato nel 1928).
I suoi testi sono ritratti, acquerelli di un tempo che fu: come ne “La partenza delle pecore” (“sembrano un mare pien di tempesta, con onde torbe, con onde chiare, saranno mille, saran du’mila, belando tutte con gran bordello”) o il ricordo di sere d’inverno passate con la nonna davanti al fuoco, ma anche fatti di cronaca locale come in “Furto in chiesa”: “una notte di tempesta” in cui “tre o quattro malfattori, vanno in chiesa e fanno festa a tre santi dei migliori”. Infatti, nel settembre del 1910, fu rubata nella chiesa di Gavinana due terracotte dei Della Robbia, poi ritrovati a Parigi in via La Fayette.
Sono, come detto, versi semplici e che per questo, forse, piacciono ancora tanto e arrivano lì dove devono giungere: al cuore. In “Autoritratto” così si descriveva: “non sono bello, non sono brutto, di color pallido, di viso asciutto, non porto baffi, la fronte alta, il naso grosso, il labbro sottile, i denti radi, l’animo acceso, taciturno e camminatore, mezzo astemio, mezzo poeta”.
Al tempo della redazione delle poesie viveva in una “stamberga stonacata e nera dal tetto rosso e piccole finestre “dove fiorisce intorno la ginestra” in cui “viveva ramingo come l’usignolo. A quella porta un giorno bussò una mendicante a cui non diede niente. Pochi giorni dopo seppe che era morta e grande fu il dolore. Aveva avuto un cane, Leo, sparito “in una mattina scialba”. “Col suo nome e e col cuore in bocca” errò di valle in valle con la gente che gli rideva dietro le spalle.
Era nato in “una squallida sera di novembre”, un giorno triste, quello della vigilia del giorno dei Morti. Umbratile, vedeva nell’avvenire “buio e squallore” e con tratti di veggenza scriveva: “per andar bene bisogna esser birbanti o navigare con le tasche piene”. Versi di una triste attualità. Ci lasciamo, però, con un verso dedicato al Natale sempre raccolto nel volume “Fiori di bosco” disponibile nelle edicole e nelle librerie della Valle.
“La vigilia di un Natale”
Ricordo la vigilia di un natale,
che eravamo seduti intorno al foco:
ardeva il ciocco, ormai tradizionale,
che andava consumando a poco a poco.
II paiolo attaccato alla catena
bollia sonoro; nonna con le molle
toccava il ciocco e scoperchiava appena
il paioletto, che sonoro bolle.
E noi ragazzi, come tutti fanno,
benedetti ragazzi alla buon’ ora !
dieci minuti ci pareva un anno,
un anno lungo, che ricordo ancora.
E fissi fissi si guardava nonna,
la buona nonna; dalla vecchia rocca
filava sempre; benedetta donna,
quante novelle uscì dalla sua bocca!
Anche il paiolo si guardava attenti:
Dice la nonna: tra un bollor son cotti.
Ci vuol ben poco ad essere contenti,
a dodici anni: bastano i ballotti.
Non filava la nonna quella sera,
intenta era a raccontar novelle,
come fanno le nonne: e la leggera
mano posava sulle mie sorelle.
Nel buio profondo suonò la campana,
era la Messa della mezza notte,
io la sentivo rimbombar lontano,
tra il sonno mi parean voci interrotte.
Ed era la vigilia di un Natale,
era un Natale di molt’ anni fa :
ardeva il ciocco ormai tradizionale,
che ancor ricordo, con solennità.
Ricordo il ciocco, ricordo la nonna,
che ora è morta, e non la vedo più,
e le novelle della buona donna
sono i miei sogni della gioventù.