Ci ha stupito, sino alla fine. Lucio Dalla se n’è andato in un giorno pieno di luce con il profumo della primavera nell’aria. Così d’improvviso. Nessuno se lo aspettava. È morto a Montreux dove si era esibito.
Sabato oltre trentamila persone gli hanno reso omaggio nella camera ardente nel cortile di Palazzo D’Accursio.
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano nel suo cordoglio, ha affermato: “a me personalmente e’ caro il ricordo dei nostri incontri, e dell’ultimo, a Bologna, per una iniziativa di beneficenza, ritrovando in ogni occasione la schiettezza e delicatezza del suo tratto umano”.
La morte di Dalla ha suscitato una grande commozione nell’opinione pubblica, una commozione sincera e sentita. Dalla accompagnava con le sue canzoni la vita degli italiani da cinquant’anni. Aveva iniziato a suonare molto giovane: a sedici anni si esibiva con Chet Baker a Roma da dove era arrivato da un anno. La madre donna strana, “una stilista che non sapeva mettere un bottone”, lo aveva lasciato andare dopo averlo portato in un istituto psicotecnico di Bologna per un test sulle attitudini. Risultò che “ero un mezzo deficiente”.
Iniziò a suonare il clarinetto e nelle pause giocava a flipper con Andy Warhol. Fu Gino Paoli a convincerlo a intraprendere la carriera da solista. Poi una gavetta lunghissima, iniziata nel 1958, vari Sanremo, la notorietà. A metà degli anni settanta la collaborazione con Roberto Roversi con cui realizzò tre album che rasentarono la perfezione. Poi il sodalizio tra i due si ruppe: Dalla aveva intuito che la troppa ideologia soffocava la musica. Lui voleva parlare a tutti. Arrivò il tour con De Gregori, poi “Caruso”, ripresa anche da Pavarotti e incisa in una trentina di versioni in tutto il mondo. Nel 1988 una mossa che spiazzò tutti: andò in tournée con Gianni Morandi, “l’idolo delle ragazzine di fine anni Sessanta, caduto nell’oblìo”.
“Esiste un dovere”, diceva “quello di saper andare controcorrente. Di essere fuori moda. Bisogna avere il coraggio di andare avanti, anche se hai tutti contro, così si impara a navigare”.
Lanciò Ron, Samuele Bersani, Luca Carboni, gli Stadio. Aveva un fiuto straordinario per i talenti e le cose che veramente valevano. Una notte gli telefonò Ron. “Lucio, ho scritto un pezzo. L’ho proposto ad Antonacci ma lui ha detto che è orrendo. Mi dici cosa ne pensi?”. Bastarono due minuti al telefono, con un audio che faceva pena, per far decidere a Dalla che doveva incidere quel brano: era “Attenti al lupo” e vendette 1.400.000 copie.
Era un uomo ricco, era generoso di sé. Amava scherzare e prendere in giro: “Signorina, che piacere fare le interviste con te – ripeteva a una famosa deejay –, sei una delle poche più basse di me”.
Ma sapeva ridere, sopratutto di sé: “Il fatto di essere un cantante di piccola statura non mi ha mai ostacolato nella mia carriera. Anzi. Quando sono stato sul palco con De Gregori, mi sentivo come gratificato dall’essere un nanetto accanto a un gigante come Francesco che mi dominava da lassù. Mi ha sempre divertito questo mio difetto che ho esorcizzato giocando pure a basket”. Si era fatto mettere il parrucchino (che aveva voluto biondo, esplicito, dichiarato) da Cesare Ragazzi, di cui era diventato amico. “Non si può certo dire che io sia bello. Ma mi accetto come un regalo del cielo. Non ho mai desiderato essere un altro”.
Aveva assunto un imbianchino che gli assomigliava come sosia: lo mandava ai pranzi ufficiali e una volta lo mandò al suo posto anche al Festivalbar, all’Arena di Verona, per non perdere una partita di basket della Virtus. In cambio, un giorno Lucio andò a lavorare al posto suo.
Faceva il clown ma era un uomo intelligentissimo e colto. Malinconico a tratti, come tutti i grandi. “Vedi- confessava ad un amico- tutte queste persone non sanno niente di me. In me vedono solo un piccolo omino buffo che canta. Ma a me non importa, perché sento che mi vogliono bene. Come io ne voglio a loro”.
Amava spiazzare, sorprendere: per presentare il suo album “Ciao”, portò tutti i giornalisti sulla spiaggia di Rimini. Consegnò a ognuno secchiello, paletta e rastrello, e poi si mise a parlare di argomenti serissimi come la guerra in Bosnia, al centro della canzone che da il titolo all’album ( “È stato come un lampo/ proprio in mezzo al cielo/ era blu cobalto, liscio/ liscio senza un pelo…”).
Ma era anche un uomo profondamente religioso. Nella sua casa bolognese, cinque appartamenti comunicanti, accanto alla tela preziosa di Franz Von Stuck e ala coperta rossa con la faccia di Lenin, al merlo parlante che canta Caruso e alle foto di Trockij e degli zar, ci sono decine di crocefissi lignei. “La fede cristiana è il mio unico punto fermo, è l’unica certezza che ho”, aveva detto all’”Osservatore Romano” nel 1997, poco prima di esibirsi davanti a Giovanni Paolo II. “Il Papa è il Papa, non è mica uno scherzo”, disse in quell’occasione ai cronisti. “Sono credente – aggiunse -. Credo in tutto ciò in cui si può credere, in Dio come nell’arte, nel mare, nella vita. Credo in Dio perché è il mio Dio. Lo riconosco negli uomini, nei poveri soprattutto, in tutti coloro che hanno bisogno di aiuto. Mi ha sempre colpito la decisione di Cristo di nascere povero. Lui, povero, è il futuro”.
Parole importanti, sincere. “Non è tanto dalla ragione che nasce la fede. Il meccanismo del credere è dentro di noi, nasce assieme a noi. È una rigenerazione, credere. Io sono credente e credulone. Sono disposto a credere. Anzi, faccio fatica a capire quelli che non credono. Io credo che la morte sia solo la fine del primo tempo”.
Una fede che dava speranza e fiducia nel futuro e, anche, nella morte. Nel presentare la sua canzone “Ayrton”, come ha ricordato in un commosso intervento l’amico critico Mario Luzzatto Fegitz, aveva detto: “la morte è solo la fine del primo tempo, il secondo tempo è l’eternità”.